Avete letto la nostra recensione de L’errore che rifarei, terzo appuntamento con la Devil’ s Night di Penelope Douglas?
Forse manca qualcosa…
Enjoy!
Damon
«Tu sei pazzo!» urlò Bryce allontanandosi, per poi tornare indietro e rincarare nuovamente la dose. «Me ne vado e questa volta non tornerò!»
Okay, ciao.
Feci scivolare la tacca del martello sotto la testa del chiodo tirandolo fuori e aggiustando la sua intera mattinata di cazzate. I muscoli delle mie braccia erano tesi e bollenti e, se non se ne fosse andato, lo avrei mandato via io stesso.
«Dico sul serio, Damon!» abbaiò di nuovo, cercando di svelare un mio eventuale bluff.
Gli mostrai il dito medio, senza guardarlo.
Sentii delle lattine cadere a terra e immaginai che, probabilmente,avesse preso a calci qualcosa mentre si precipitava verso la porta.
«Ehi, che diavolo?» sentii Kai irrompere, le ante della porta sbatacchiarono mentre si fiondava dal front office fino al magazzino dove stavamo lavorando. «Cosa succede?»
«È pazzo» disse Bryce. «Non è in grado di lavorare con le persone!»
Risi sottovoce.
Sentii Kai sospirare, perché era al culmine della sopportazione quanto me.
Davvero. Nessuno era in grado di pensare a se stesso. Dovevi spiegar loro ogni dannata cosa e guai a dare più di un’istruzione per volta: i loro cervelli sarebbero andati in cortocircuito, visto che non riuscivano a ricordare tutto e a respirare allo stesso tempo.
Finii di rimuovere gli ultimi due chiodi e gettai le assi di lato,sbarazzandomi di ogni prova che avesse lavorato qui, oggi.
«È irascibile, ma scenderà a compromessi» Kai spiegò a Bryce. «Ci siamo già passati».
«Compromessi?» si lagnò Bryce. «Mi ha tirato un’ascia contro la testa!»
«Se avessi mirato alla tua testa, l’avrei colpita» ringhiai silenziosamente.
C’era silenzio, e poi sentì la voce di Bryce. «Sono fuori di qui, amico».
Mi inginocchiai, togliendo i chiodi dalla successiva asse che aveva mandato a puttane.
«Bryce, dai».
«Lascialo andare» replicai verso Kai.
La porta si spalancò di nuovo colpendo il muro e il resto del gruppo intorno a me si schiarì la gola ritornando a lavoro, mentre Kai apparve in lontananza. Perché cazzo era qui? Se non potevo avere Will a gestire le stronzate lì fuori, allora volevo una delle ragazze. Michael e Kai mi rendevano solo più stressato.
«Come te la caverai?» chiese Kai stringendo un sacco di scartoffie nel pugno.
«Molto meglio, senza quell’idiota in giro».
«Damon…»
Scossi la testa. Basta, cazzo. Avevo bisogno di finire la struttura di altre tre case sull’albero prima che il bambino arrivasse entro nove giorni, per non parlare del completamento del progetto della fontana davanti alla nuova biblioteca di Meridian City. In più dovevo capire che cazzo fosse un capanno, perché Catherine O’Reilly amava la nuova casa sull’albero di suo figlio e aveva pensato che potessi costruirle qualcosa di suo. Pagava il doppio per affrettare le cose prima che nevicasse, tra qualche mese, quindi non potevo dire di no.
Dei fotografi venivano da tutta la settimana per fare scatti dei “lavori in corso” per il nuovo sito web che Alex gestiva, per fortuna, facendo di tutto per mandarci online. Volevo che la gente mi lasciasse da solo nel magazzino. Mi sbrigavo prima, senza aiuto.
Una parte di me, però, sapeva che ero io stesso parte dei miei problemi. Il bambino dei Langston voleva una casa sull’albero, ma quando avevo scoperto che era ossessionato dai pirati, avevo cancellato qualsiasi cosa che era stata fatta e avevo invece iniziato il progetto per un vascello d’alto bordo. A cosa cazzo stavo pensando?
Guardai l’arco e gli alberi già costruiti, sentendo un sorriso tirare le mie labbra. Sarebbe stata fottutamente fantastica, quando sarebbe stata finita. Ne sarebbe valsa la pena, se l’avesse amata.
«Stai esaurendo le energie» mi disse Kai. «Sei appena tornato da Washington e prima ancora dalla California, hai un bambino in arrivo, i progetti si accumulano…» La sua voce si affievolì, e la sentii più vicino. «Non posso credere che sto per dirlo, ma penso che dovresti iniziare a fumare di nuovo».
Sollevai un sopracciglio. Non avevo smesso completamente, in realtà. Probabilmente non lo avrei mai fatto.
Sollevando il primo telaio, lo posai contro il muro e mi mossi verso il successivo.
«Non hai bisogno di impiegati, hai bisogno di un team» disse Kai, seguendomi. «Non prenderò altri ordini finché non sistemeremo questo posto. Con uno staff regolare. Ho già detto all’università che stai assumendo».
Gli gettai un’occhiataccia. Non sbagliava, non avevo avuto il tempo di occuparmene, ma Kai continuò. «Hai bisogno di un capoufficio, di un team di progettazione e di una segretaria, che non sono io. Ho già abbastanza in ballo». Si strofinò il collo. «Tutti si stanno sforzando di coprirti, ma sarai molto meno stressato se il tuo quartier generale sarà gestito senza intoppi».
«Va bene, come vuoi» scattai. «Occupatene tu. Devo essere in anticipo sul programma».
Fai quello che vuoi, e non rompermi le palle. Sapevo che mi stavano facendo un mucchio di favori, ed ero grato che fossero qui, perché non ero tagliato per molte cose. Volevo soltanto che qualcun altro fosse il volto dell’azienda e che io restassi sullo sfondo, progettando, costruendo e restandoda solo. Se Will fosse stato qui, avrebbe potuto farlo. Sarebbe stato felice di farlo.
Peccato che però non fosse qui molto spesso, ultimamente. Era ritornato a casa per un paio di mesi e poi era volato via di nuovo, smanioso di spazio di cui prima non aveva mai avuto bisogno. Lui, Alex, e pochi altri erano andati in giro per la Scandinavia durante l’estate, ma quando gli altri erano ritornati a casa, lui era rimasto lì e io non lo vedevo da settimane.
Anche se chiamava regolarmente.
Credo che si sentisse tagliato fuori. Vedeva Michael con Rika, Kai con Banks, me con Winter e lottava per sentirsi parte del gruppo. Aveva Alex, ma lei non era ciò di cui aveva bisogno e continuava a scappare ancora e ancora, per non pensare o… sentire. O affrontare.
Kai si girò e tornò verso l’atrio, ma poi si fermò, tirando il telefono fuori dalla tasca.
«Ah, merda» disse. «Dov’è il tuo telefono?»
«Perché?» brontolai.
«Perché è ora».
«Ora per cosa?»
Guardò il telefono, sorridendo a se stesso. «Immagino che anche alla tua ragazza piaccia essere in anticipo». E mi guardò. «È entrata in travaglio due ore fa. Dov’è il tuo fottuto telefono?»
Il cuore mi balzò in gola. Cosa?! Mi diedi un colpetto sui jeans, guardandomi intorno.
Merda!
Lo trovai posato su una pila di assi e mi ci fiondai sopra. Premendo il pulsante di accensione, non si illuminò.
«Fanculo, è morto. Dov’è lei?» abbaiai.
Due ore. Era in travaglio da due ore?!
Ma lui si mise a ridere. «All’ospedale. Andiamo».
Perché stava ridendo? Forse aveva dimenticato come era agitato quando nacque suo figlio, un paio di mesi fa.
Uscii dalla stanza sentendo Kai dire ai ragazzi di chiudere alle cinque, ci precipitammo fuori dall’edificio e dentro la mia macchina.
***
Ci affrettammo dentro l’ospedale, sapendo che la sala travaglio si trovava al terzo piano da quando Banks aveva avuto suo figlio a maggio. Non avevo neanche idea che Winter fosse in città, oggi. Che diavolo mi prendeva? Probabilmente mi aveva scritto, ma ieri sera avevo dimenticato di caricare il telefono e non sapevo da quanto tempo fosse morto.
Salimmo nell’ascensore e ci precipitammo fuori appena le porte si aprirono diretti alla postazione dell’infermiera, ma subito vidi Banks seduta su delle sedie, che stringeva suo figlio.
Madden.
Mads, abbreviato. Mads Mori. Povero bambino, sembrava il nome di un assassino.
Le sfiorai il viso mentre camminavo e lei fece un sorriso enorme, eccitata per me. Mads le mordeva la guancia con la sua bocca senza denti, facendo suoni carini e stronzate simili.
Ma poi un urlo e un rantolo trafissero l’aria e sentì le voci di un uomo e di Alex che incitavano. «Ti tengo!»
Senza aspettare, irruppi nella stanza, con il cuore in gola. Non avevo mai sentito Winter urlare così prima. Gesù. Doveva suonare così?
Era sdraiata sul letto e corsi da lei, aiutando Alex a tenerla sollevata mentre lei spingeva per il dottore.
«Sei, sette, otto…» l’infermiera continuava a contare.
«Piccola» sospirai, baciandola.
«Damon» rantolò, realizzando fossi lì.
«Nove, dieci» conclusero.
E Winter rilasciò un sospiro, risucchiando aria.
«Ero così spaventata che non saresti arrivato» disse. «Mi si sono rotte le acque mentre facevamo shopping, e il bambino sta arrivando così in fretta».
«Ero con lei» si intromise Alex.
Rafforzai la presa intorno a Winter e le baciai la fronte, le guance e lelabbra, assicurandomi che mi sentisse vicino.
«Grazie» dissi ad Alex.
Winter tremò e io studiai il suo viso, guardandola mordersi il labbro inferiore con le lacrime agli occhi.
Era come se avesse di nuovo otto anni, con le nostre dita appese a un filo nella casa sull’albero, e io non potessi fermare nulla di ciò che le stava accadendo.
«Perché sta piangendo?» abbaiai al dottore.
«Perché fa male, cazzo!» urlò, rispondendo per lui.
«Beh, datele qualcosa!»
«È troppo tardi per quello, ora» ingiunse il dottore attraverso la mascherina, guardando le gambe di Winter. «In più, volevi un parto naturale, giusto?»
«Perché, cazzo?» scoppiai, guardandola come se avesse tre teste. «Non ne abbiamo parlato».
Lei grugnì e spinse sui gomiti.
«Bene, un respiro profondo e spingi!» ordinò il medico. «Uno, due, tre, quattro…»
«Ahhh!» strinse i denti, tutto il suo corpo teso e rigido, e io volevo guardare, ma non volevo lasciarla.
«Cinque, sei, sette…» continuarono.
Winter sembrava arrossata e il sudore le imperlava la fronte.
«Otto, nove…»
Il suo viso si contorse e rilasciò un piccolo urlo, una lacrima cadde dal suo viso e io strinsi i pugni, incapace di distogliere lo sguardo da lei. Gesù, cazzo. Perché diavolo aveva rifiutato delle droghe perfettamente legali?
«Ok, la testa è fuori!» ci comunicò il dottore.
I miei polmoni si svuotarono e il mio stomaco si contorse. Mi mossi per guardare, ma lei mi riportò indietro. «Non mi lasciare».
Mi chinai a baciarla, ma iniziai a ridere, e non seppi resistere.
Non avevo idea del perché sentissi ciò che sentivo, ma era incredibile. Qualsiasi cosa fosse.
«Scommetto che è un maschio» disse, facendo un respiro profondo.
«Se ti sbagli, devi fare quella cosa nella vasca per me» le ricordai la nostra scommessa.
Non avevamo voluto sapere il sesso del bambino, decidendo per una sorpresa.
Si mise a ridere, nonostante tutto. «Lo avrei fatto comunque. Lo sai?»rispose candidamente.
«Okay, un’altra spinta» decretò il dottore.
Alex e io la sorreggemmo nuovamente, mentre lei fece qualche respiro profondo che poi trattenne inspirando, stringendo gli occhi e spingendo mentre il conteggio iniziava.
«Uno, due, tre…»
Guardai il suo viso, così tante cazzate mi passavano nella testa mentre la guardavo, ma più di tutto volevo tenerla stretta. Non potevo credere che stesse succedendo.
«Quattro, cinque…»
Sarei stato un disastro. Avrei fatto così tante cose sbagliate con lei e questo bambino.
«Sei, sette, otto…»
Ma cazzo, li avrei amati. Non mi importava essere perfetto. Volevo solo essere tutto ciò che mio padre non era mai stato. Volevo tutto questo con lei un altro milione di volte, e non importava tutta la merda che ancora mi albergava dentro, sapevo già di essere migliore di lui.
«Nove, dieci…»
Il dottore si tirò indietro, Winter si accasciò e io sentì un pianto stridulo riempire la stanza.
«È un maschio!» esclamò il dottore.
Mi guardai intorno, vedevo piccole braccia e gambe rosse mentre gli pulivano la bocca e lo controllavano e poi continuai a fissare mentre lo riportavano indietro per posarlo sul petto di Winter, avvolto in una piccola coperta.
Lei sorrise, ma iniziò a piangere, stringendo le sue braccia intorno a lui e io rimasi lì incapace di respirare per un minuto.
«Un maschio» mormorò. «Te lo avevo detto».
«Gesù Cristo». Sorrisi, sfiorando la sua testa, quasi spaventato di toccarlo. «Porca puttana».
Gli controllai le dita delle mani e dei piedi, afferrando una delle sue lunghe gambe mentre scalciava.
«57,7 centimetri di lunghezza per 3,9 chilogrammi» sancì l’infermiera da qualche parte dietro di noi.
«È grande» commentò il dottore. «Giocherà a basket, Damon».
Sorrisi senza distogliere lo sguardo dalla mia ragazza e da mio figlio.
Avrei voluto che fossimo sposati ora, ma con l’azienda, la danza e la gravidanza, avevamo deciso di prenderci il nostro tempo e di farlo nel modo giusto. Volevo farlo a modo nostro.
Alex andò via, probabilmente per dire a tutti quelli che aspettavano che era nato e che era in salute e, poi, ricordai che Will non era qui.
Vacillai. Avrebbe dovuto essere qui. Tra tutti i miei amici, lui avrebbe dovuto essere qui.
«Che aspetto ha?» chiese Winter con voce rauca.
Passai la mia mano su entrambe le loro teste. «Come se il prossimo anno correrà con noi nella fontana» le dissi. «È perfetto, piccola. Capelli neri, un po’ incazzato…»
Sbuffò, e io pensai a come sarebbe stato tra un anno quando avrebbe camminato, corso, riso e giocato. Volevo il rumore. Lo volevo in tutta la casa. Volevo che riempisse le nostre vite, d’ora in poi.
«Congratulazioni» disse il dottore mentre le infermiere riordinavano.
Tenni gli occhi su mio figlio. «Tra quanto potrà affrontare un’altra gravidanza?» chiesi al dottore.
«Damon…» Winter rise sottovoce.
Sentii il dottore sghignazzare. «Credo che gli piaccia essere padre»replicò verso Winter, ma io girai la testa e fissai il dottore negli occhi, e lui sbiancò.
«Oh, sei serio» constatò, realizzando che io non stavo ridendo.
Aprì la bocca per parlare, ma impiegò qualche momento per ritrovare le parole. «Uhm, in pochi mesi, direi» rispose finalmente. «È stata una gravidanza tranquilla. Ma ha bisogno di tempo per guarire».
E poi lo disse di nuovo, più lentamente e con più fermezza, suonando come un avvertimento. «Dovrai darle il tempo di guarire».
L’angolo della mia bocca si sollevò, divertito.
Pensava fossi un mostro?
***
Trascorse quasi tutta la notte mentre trasferirono Winter in un’altra stanza e presero il bambino per lavarlo. Quando lo riportarono indietro, tutti noi lo tenemmo in braccio per un po’. Poi, Banks, Kai, Michael e Rikafinalmente andarono via, ma chiesi ad Alex di rimanere nel caso Winter avesse bisogno di qualcosa, non era il caso di lasciarla da sola. Rimasi vicino alla sua culla, guardandolo respirare mentre madre e figlio dormivano, ma non riuscendo a farlo io stesso, avevo bisogno di sgranchirmi le gambe.
Mi diressi verso Winter, togliendo il telefono dalla carica mentre bisbigliavo al suo orecchio. «Vado a prendere un po’ di aria» mormorai. «Torno subito».
Gemette piano annuendo e io uscii, chiudendo la porta dietro di me.
Scesi con l’ascensore e uscii fuori, la mite aria di agosto era densa e pesante sulla mia pelle mentre allungavo le braccia sulla testa e sbadigliavo. Respirai l’odore dell’asfalto caldo e del pane fresco che proveniva dalla panetteria in fondo alla strada e chiamai Will, ma venni dirottato alla segreteria telefonica.
Scossi la testa.
Avevo quasi riattaccato, quando un’ondata di rabbia mi fece infuriare. «Sapevi che mio figlio sarebbe nato questo mese» sbottai. «Perché non sei qui? L’hai perso. Lo sai, sei solo fottutamente…»
Ma mi fermai e riagganciai, digrignando i denti, perché non sapevo cosa dire.
Coglione.
Ma dopo un momento, mi sentii male. Non avevo nessun diritto di perdere la pazienza con lui.
Lo richiamai, attendendo, aspettando che la segreteria partisse nuovamente. «Mi manchi» dissi. «Manchi a tutti. Abbiamo bisogno di te, okay? Mio figlio ha bisogno di te. Sei il suo preferito. Lo so già. Solo…»
Scossi nuovamente la testa e riattaccai.
Non avrei dovuto essere arrabbiato. Avevo già fatto la mia giusta parte di cazzate che pensavo di dover fare.
Tutto ciò era solo importante. Volevo che fosse parte di questo ricordo.
Mi voltai per tornare dentro, ma l’odore di qualcos’altro arrivò alle mie narici e mi fermai. Una consapevolezza mi colpii e risi da solo, dimenticando Will per un momento.
Voltando la testa, vidi una nuvola di fumo arrivare da dietro un angolo e gli andai incontro, trovando Rika seduta sul delimitatore di parcheggio, con le gambe distese e le caviglie incrociate, mentre fumava una Davidoff.
Mi avvicinai a lei rimanendo in piedi e, senza guardarmi, mi porse il pacchetto e l’accendino come se mi stesse aspettando.
In cosa era coinvolta? Era stata fottutamente strana negli ultimi mesi ed ero quasi tentato di rapirla di nuovo, rubare lo yatch di Michael e portarla per mare fino a quando non me lo avesse detto. Non avevamo avuto modo di parlare prima, ma era chiaramente tornata per un motivo.
Presi le sigarette e ne tirai fuori una, accendendola e godendomi l’accogliente sapore familiare. Feci un altro tiro ed espirai il fumo, restituendole le sigarette e l’accendino.
«Le dirò che ha un nipote» dichiarò, guardando ancora avanti.
Quindi era per questo che era seduta qui fuori alle quattro della mattina? Stava cercando di capire come gestire una situazione che non era affar suo?
«Dille ciò che vuoi».
Nei mesi successivi, da quando avevo scoperto che la madre di Rika era anche la mia, non avevo né parlato né contattato Christiane Fane. Si era occupata della mia libertà dopo che mio padre era stato ucciso, ma per quanto mi riguardava, me lo doveva, quindi no, non ero grato. Poteva anche farsi fottere.
Vincere non era importante, ma lottare lo era, e lei non aveva combattuto per me, proprio per niente. Averla intorno non avrebbe apportato nulla di nuovo.
Ma Rika continuò a protestare. «Damon, non puoi farle questo. Merita di essere nella sua vita».
«Lo credi davvero?» le chiesi, anche se continuava a non guardarmi. «Cosa sarebbe successo se mio padre non mi avesse mai detto la verità? Lo avrebbe fatto lei? Non sembrava che fosse nei suoi piani».
«Magari, una volta che avesse scoperto che lui era morto, sarebbe stato esattamente il suo piano» rispose candidamente guardandomi. «La verità è che ti voleva. Non ha abortito, non ti ha dato via. E non è stata la migliore madre che avrebbe potuto essere, ma non mi ha mai fatto del male. Non ha mai alzato un dito contro di me, e mi ha amata».
Scossi la testa, fregandomene.
O cercando di farlo.
Un’immagine di Christiane mi venne in mente, però. Giovane, in lacrime, mentre mi teneva tra le braccia prima che mio padre mi strappasse via. Non potevo immaginare il dolore.
Sbattei le palpebre e scossi la testa. No. Ero un genitore, ora, e sapevo, senza dubbio, che niente si sarebbe frapposto tra mio figlio e me. Lei era stata così debole, per tanto tempo. Il mio bambino non aveva bisogno di qualcuno così.
«Inoltre, lei non è l’unica famiglia che hai» sottolineò Rika. «Ha un esercito di parenti in Africa e in Europa. Non lo vuoi per tuo figlio?»
«No» replicai senza esitazione. «Mio figlio avrà Winter e me». Guardai verso di lei. «E te».
Mi scrutò con occhi socchiusi.
«E Banks, Alex e i ragazzi» aggiunsi. «E avrà i vostri figli. Questa è la sua famiglia. È esattamente la famiglia che voglio per lui».
Prima che potesse controbattere, spensi la sigaretta e andai verso l’entrata.
«Vincerò» gridò, minacciandomi.
Mi voltai, incapace di nascondere il sorriso sul mio volto. «Non vedo l’ora di vedere la tua prossima mossa» la derisi.
Mi girai di nuovo, andando in ospedale.
Onestamente, non ero preoccupato. Avrebbe potuto vincere, ma non sarebbe successo questa sera e non sarebbe accaduto se non lo avessi voluto. La prospettiva di riavere Rika in gioco era troppo divertente, quindi le avrei concesso di provarci.
Odiavo mio padre per tutto ciò che aveva fatto, ma per quanto odiassi ammetterlo, amavo tutto ciò. Una parte di me si era sempre chiesta perché fossi attratto da Rika un po’ di più rispetto ad ogni altra donna ad eccezione di Winter e Banks. Mi sono chiesto perché qualunque cosa ci fosse tra di noi sembrasse naturale e inevitabile. Avrei potuto ferirla o ucciderla centinaia di volte, ma qualcosa mi aveva sempre trattenuto.
Ovviamente era una dei miei. Ovviamente lo era. Tutto aveva avuto senso durante l’ultima Notte del Diavolo. Tutto sembrava allinearsi, e io non avevo paura.
Come Banks, Winter e me, Rika era unica. Era nata per fare follie, e la volevo nella mia famiglia.
Tornando in fondo al corridoio e risalendo con l’ascensore, mi diressi verso la camera di Winter e chiusi con delicatezza la porta dietro di me. Il suo telefono era sul comodino, un’applicazione emetteva il suono della pioggia mentre dormiva e mi avvicinai, guardando nella culla il bambino che riposava, fasciato per bene e al caldo. Ora, però, indossava un berretto nero con la scritta “Nuovo nella Ciurma”.
Risi silenziosamente e guardai Alex addormentata sulla sedia vicina al suo lettino. Non ricordavo il berretto tra tutte le cose che Winter aveva comprato, quindi avrei dovuto ringraziare Alex. Era abbastanza divertente. Doveva essersi svegliata e averlo cambiato mentre ero fuori.
Alzai la testa, guardando in basso verso di lui. Mi aspettavo che piangesse ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla settimana, ma era abbastanza tranquillo. Forse, sapeva di essere al sicuro.
O, magari, era stanco, e le cose sarebbero diventate reali domani.
«Come sta?» Sentii Winter sussurrare.
Schizzai su, guardandola dall’alto per scoprire che si era seduta, i suoi capelli biondi sciolti in un bellissimo disordine intorno al suo viso.
«Addormentato» le dissi.
Mi abbassai e le tenni il viso, notando quanto apparisse esausta. Eravamo entrambi a corto di energie in questi giorni ed era ora di rallentare. Avrei voluto fare molto di più prima dell’arrivo del bambino, ma non c’era tempo per quello, ora. Avrebbe avuto bisogno di me nelle due prossime settimane, come minimo anche se, alla fine, avrei dovuto assumere qualcuno per aiutarla con il bambino. Sapevamo che era la realtà.
Per il momento, mi sarei goduto solo la mia famiglia.
La baciai e lei posò la sua mano sulla mia. «Ho bisogno di una doccia».
Mi alzai e le presi le mani. «Ti aiuto».
La guidai fuori dal letto e la scortai con attenzione attraverso la stanza in direzione del bagno, sporgendomi per dare un colpetto ad Alex durante il tragitto. «Alex?» la chiamai, vedendola scuotersi. «Tieni le orecchie aperte per il bambino, okay? Andiamo a fare una doccia».
Lei annuì sbadigliando e noi andammo in bagno, lasciando la porta socchiusa, per sicurezza.
Winter non perse tempo, togliendosi il camice dell’ospedale mentre aprivo la doccia facendo scaldare l’acqua e mi avvolse le braccia intorno alla vita, aggrappandosi a me come se stesse per cadere.
«Hai lo stesso odore del liceo» rifletté.
«Ho fumato una sigaretta» ammisi, anche se ero abbastanza sicuro che lei sapesse che continuavo a fumare ogni tanto. «Mi sentivo troppo bene».
«Mi piace».
Non volevo quell’odore sui miei vestiti quando cullavo il bambino, ma la prospettiva di fumare ogni tanto rendeva più semplice “smettere”.
Mi spogliai e la portai nella doccia con me, chiudendo la porta dietro di noi.
Appena la misi sotto l’acqua, vidi il sangue scivolare dal suo corpo rendendo il pavimento rosa.
Lo stomaco mi si rivoltò un po’. Volevo altri figli, ma non volevo sottoporla nuovamente a tutto ciò. Sapevo che sarebbe stata bene una volta guarita, ma sembrava quasi ingiusto che alcune donne lo avessero fatto cinque o sei volte. A volte di più. Sembrava brutale.
E non volevo vederla piangere così di nuovo.
Ci lavammo e risciacquammo i capelli, poi insaponai una spugna e lavai il suo corpo, sapendo che doveva essere fottutamente indolenzita per lasciarmelo fare senza protestare.
«Cosa farai?» chiese mentre mi inginocchiavo davanti a lei per lavarle le gambe. «Riguardo Christiane?»
Mi fermai, pensando. Con Rika ero troppo orgoglioso per darle tutto me stesso in una risposta, ma con Winter ero libero.
«Pensi che dovrei lasciarla avvicinare?» chiesi, senza guardarla.
Mi mise le mani sulle spalle per stabilizzarsi mentre le sollevavo la gamba e le lavavo il piede.
«Non penso che ci sia fretta di prendere alcuna decisione al momento»replicò.
Sorrisi a me stesso. Amavo il suo modo di essere. Mi rendeva migliore, perché amavo vederla felice, ma non mi obbligava a fare cose che non volevo fare.
«La nostra famiglia viene per prima» aggiunse.
«La nostra famiglia…» ripetei. La mia famiglia. Mia.
Continuai a lavarla, pulendole le gambe e il sangue dalle cosce.
«Sei mai stato sul bordo di una scogliera o di un balcone» domandò, «godendoti il momento in cui ti chiedi cosa proveresti saltando?»
Sollevai le sopracciglia.
«In un certo senso eccitato all’idea di essere a un passo dalla morte?» mi strinse le spalle. «Un passo…» continuò, «e tutto cambierebbe?»
«Sì» dissi tranquillamente. «Simboleggia la necessità di un comportamento auto-distruttivo. Non è così insolito».
Durante la guida, pensiamo, anche solo per un momento, di sterzare nella corsia opposta o di saltare dal ponte di una nave verso l’abisso dell’acqua nera sottostante. Sono pensieri passeggeri e piccole sfide che concediamo alla nostra psiche, perché siamo stanchi di non vivere e vogliamo sentire la paura. Vogliamo ricordare perché vogliamo vivere.
Alcuni di noi sono più tentati di altri dal brivido di come, in un momento, tutto può cambiare. O di come non si tratti di chi siamo, ma di cosa siamo.
Gli animali non hanno bisogno di scusarsi per qualcosa che devono fare per sopravvivere.
«C’è una frase in francese, per questo» sussurrò. «L’appel du vide».
La guardai, le sue labbra rosa velate dall’acqua calda.
«È questo che ci lega» dichiarò.
«Chi?»
«La nostra famiglia».
La nostra famiglia?
«Kai, Banks, Michael, Rika, Will, Alex…» continuò, «tu e io. Lo sentiamo tutti. L’appel du vide. Il richiamo del vuoto».
Mi fermai, guardandola.
«Il richiamo del vuoto» mormorai.
Aveva ragione? Era questo che ci legava? Simile riconosce simile, dopotutto, e noi vivevamo nel bisogno di andare un passo oltre e di sentire tutto ciò di cui eravamo capaci. E la paura era terrificante, ma superarla aveva ridefinito la nostra realtà.
«Mi piace» le dissi.
Fece una pausa. «Ti amo» sussurrò poco dopo. «Ti amo».
Un dolore mi colpii al cuore come ogni volta che me lo diceva. Come se mi innamorassi di lei di nuovo.
Mi alzai e la avvolsi tra le mie braccia, pettinandole i capelli sotto l’acqua.
«Sei così bella» constatai. «Anche se mi hai dato un figlio quando ti avevo esplicitamente chiesto una figlia».
Scoppiò in una risata. «Non ti ho dato niente!» sostenne. «È il contributo del cromosoma maschile che designa il sesso del bambino. È tutta colpa tua».
Sorridemmo entrambi, e le diedi un colpetto con il mio naso. Non so perché pensassi che il bambino sarebbe stato una femmina. Forse ci speravo soltanto. Mi sembrava di cavarmela meglio con le ragazze. Banks, Winter, Rika… ero spaventato, suppongo.
«Dobbiamo solo continuare a provarci» la provocai.
Si strofinò sul mio collo depositandovi piccoli baci e facendomi rabbrividire.
«Ti amo» bisbigliò. «Ti amo».
Il mio cazzo iniziò a indurirsi, e scossi la testa. «Non…» pregai. «Renderai le prossime settimane una tortura».
Non potevamo fare sesso per non so quanto tempo.
«È perfetto, lo sai?» abbassai le mani lungo la sua schiena. «Hai fatto un lavoro incredibile. Spero solo che in lui ci sia più di te, che di me».
Lei annuì, concordando, e io le diedi uno schiaffo sul culo.
Rise. «Quindi come lo chiameremo?» chiese.
«Non abbiamo deciso?»
«Non che io ricordi».
Chiusi gli occhi, scuotendo la testa. Dio, non ne avevo idea. Niente di vecchio, per favore. E niente di biblico.
Oh, e niente di unisex. Come Peyton, Leighton, o Drayton.
«Qualche idea?» chiese.
In risposta, l’appoggiai solamente al muro tenendola stretta. «Domani»replicai.
In quel momento ero più interessato ad arrampicarmi nel letto con lei e a dormire il più a lungo possibile.
Il nome non era importante. Aveva i miei capelli e domani, forse, sarei riuscito a vedere se aveva i suoi occhi.
Se avesse avuto i miei, suppongo che non ci sarebbero stati salti di generazionali e che, dopotutto, Christiane mentiva.
Non vedevo l’ora di scoprirlo.
Traduzione a cura di Laura per Harem’s book
L’errore che rifarei (Devil’s Night Series #3) di Penelope Douglas recensione
IL MIO SBAGLIO PIÚ GRANDE di Penelope Douglas. Recensione di Laura Dell’Atti.
MILLE RAGIONI PER ODIARTI(Serie Devil’s Night#2) di Penelope Douglas-Recensione