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Nel nome della pietra  

Cristina S. Fantini

romanzo storico, narrativa

Piemme

10 marzo 2020

Il Duomo di Milano come nessuno lo ha mai raccontato.

Milano, 1385. Forza, conquista, potere. Sono queste le parole che guidano i pensieri di Gian Galeazzo Visconti, da poco divenuto signore della città dopo aver deposto e fatto arrestare lo zio Bernabò. Quando l’arcivescovo di Milano gli prospetta l’idea di una grande cattedrale che sostituisca la chiesa di Santa Maria Maggiore, il conte di Virtù, da sempre devoto alla Vergine, approva il progetto anche se la decisione non ha nulla di religioso. Diventerà potente, espanderà i confini del ducato e la cattedrale dovrà essere il simbolo della sua grandezza. Per costruirla, si circonda dei migliori architetti e scultori, i maestri campionesi, tra i pochi in grado di portare a termine un progetto tanto ambizioso. Nelle schiere di ingegneri e artigiani, operai e artisti, vi sono Alberto e Pietro, gemelli separati alla nascita. Falegname l’uno, scultore l’altro, uniti da un solo ineludibile destino, quello di contribuire a una delle più grandi imprese che la nostra storia ricordi: la costruzione del Duomo di Milano.
Tra segreti di corte, passioni e giochi di potere, un romanzo che celebra la grandezza di uno dei simboli della nostra civiltà attraverso le vite dei potenti che lo vollero fortemente e di coloro che, con l’ingegno e la fatica, lo fecero sorgere dal nulla. Queste pagine celebrano la loro memoria.

*****

Un nome: smarrito, taciuto, celebrato e tramandato ai posteri. L’identificativo che sfugge, quello che allude alle qualità spirituali della persona, unica tra tante, il prestigio evocato da quel nome o la sua funzione di semplice mezzo d’identificazione, quella in rappresentanza o per mandato di una autorità, col pretesto di agire nell’interesse superiore della libertà, della giustizia terrena o divina. O invocazione, fama, reputazione. 

La pietra: scheggia della terra, solida come un giuramento, inamovibile come un confine e fondamento, materiale da costruzione, come gli uomini pagani, come un altare. Divisa, sbozzata, levigata e finita. Come le esistenze dei protagonisti, separati e ricongiunti, nel lavoro.

E poi il segreto. O più di uno.  

Perché una storia è fatta di protagonisti, i protagonisti sono persone con una storia che è il loro passato, un passato che si svela pagina dopo pagina, si manifesta pietra su pietra.

Come un filo rosso che si snoda nelle vicende della Fabbrica, imperscrutabile disegno divino e provvidenziale o riscatto personale, ammenda. 

Nel nome della pietra è la storia di più storie. Perché ogni personaggio è una storia, la storia del suo passato, piò o meno conosciuto, svelato a mano a mano. Un personaggio è vivo grazie al suo passato, è animato dalle emozioni che hanno mosso le sue scelte, che lo fanno respirare e agire in quel mondo in cui si muove.  Identità e nomi che scrivono la Grande storia, eppure la storia è nelle mani degli artigiani delle esistenze, come le maestranze della quotidianità che vivono istanti all’ombra di impalcature e progetti.

Gian Galeazzo munifico mecenate del Duomo di Milano, destinato a diventare un attivissimo cantiere di scambi artistici, è l’uomo pronto a dispiegare la sua lucida sapienza nei rapporti con i grandi d’Europa e accogliendo le istanze di magnificenza, concedendo esenzioni e privilegi, donando perfino le cave di Candoglia per l’ “Ottava meraviglia” e la sua “Bibbia di pietra”. 

La Gerusalemme celeste che i milanesi avevano voluto per la Santa vergine, per la città, per il popolo…

«Un desiderio giusto, ma devi restare in vita.»

Perché credi che lo assecondi? Son venuto qui a caccia per tenerlo d’occhio, ogni sua mossa mi interessa»

Giacomo infilò un tarsetto di velluto nero, poi andò al tavolino dove la brocca della sera prima aveva conservato un misero dito di vino.

«Fai bene, fai sembiante di interessarti a lui e tienilo sottocchio, devi proteggere ciò che hai.»

«Sì» convenne Gian Galeazzo con gli occhi fissi su una macchia di umidità che si allargava sul muro. «E cosi facile che ti portino via tutto a poco a poco, anche l’anima senza che tu te ne accorga.»

«Ti ruberà la vita, se potrà.»

«Non glielo permetterò, amico mio, Ho quella città nel cuore, è la chiave per il potere e chi tiene Milano tiene tutto il settentrione. Sento che un grande destino mi lega a quelle strade strette, a quei canali, a quelle chiese fatte dalle mani di poveri e mercanti.» Afferrò un braccio dell’amico. «Farò grande Milano e sarò grande anch’io.»

«l desideri smettono di avere importanza, di fronte alla morte.»

«Non la mia, Giacomo. Non ancora.»

Pietra su pietra, per costruire un glorioso omaggio, oggetto di visioni radicalmente diverse: per i deputati della Fabbrica, che rappresentano le forze vitali della città, le classi per così dire dirigenti, si tratta della chiesa della comunità; per Gian Galeazzo, signore di Milano, il desiderio accarezzato in segreto di farne la chiesa “palatina”, probabilmente inseguendo un modello che aveva visto realizzato dai sovrani francesi e in particolare dal re Carlo V, a lui così vicino…

Costruire e innalzare un monumento che superi il tempo, innalzando al cielo la fama che trionfi sulla morte. Sentimento così comune, ai Signori, agli artigiani, agli uomini… in fondo ogni uomo ambisce solo al non omnis moriar… 

Perché era fatale che tutto ciò in cui si addensava l’energia presentasse sempre una sfumatura di rosso? Il fuoco, il sangue, i rubini?

Anche a Gian Galeazzo accadeva

Già si figurava la potenza che avrebbe avuto quel messaggio: edificare una grande cattedrale nella città appena sottratta al potere dello zio.

Forza, potere, determinazione, grandezza.

I suoi nemici sarebbero stati schiacciati dal significato intrinseco, da quella sorta di monito.

Due fratelli si ritrovano qui, a condividere pasti, sogni, sudore e fatica, per un agire divino misterioso, di cui strumento si fa monsignor Anselmo, Anselmo Frisone gastaldo del Convento dei benedettini di Sant’Ambrogio e coadiutore del Vicario Cagnola, che assiste al ricongiungimento delle due esistenze di questi figli della colpa

«Non si può tornare indietro» aggiunse Anselmo, e non valevano solo per lei quelle parole. «La vita è crudele, non permette errori e, quando se ne fanno, vi si deve porre rimedio e avere il coraggio di portare il peso delle proprie colpe.››

«Lo farò, zio. Lo farò.››

Alberto e Pietro, fratelli di sangue, compagni nell’arte, amici nella vita.

Nel nome divisi, nella pietra e nel legno forgiati, nel segreto cresciuti.

«Sei stato bravo» commentò il ragazzo che gli si era messo a fianco. «Mi chiamo Alberto da Ascona.»

Gli tese la mano come tacevano i veri uomini e Pietro ricambiò la stretta con vigore. Gli piacque subito, aveva il sorriso negli occhi e poteva guardarli senza sforzo visto che erano alti uguali.

«Io sono Pietro di Campione» disse.

«Sei un novizio?» chiese l’altro mentre si avvicinavano alla spiaggia…

Anselmo sospirò. le bugie crescevano come radici di un albero, invisibili eppure reali

Passaggi lievi e umanissimi come un bassorilievo sfumato ricordano con quale facilità il Destino sappia intrecciare i fili delle esistenze in un trama ordita, in un disegno complesso e misterioso. Mentre si incidono con tratti fortemente chiaroscurali le vicende drammatiche di ogni personaggio

«Adesso risponderete alle mie domande?»

La voce di Pietro lo strappò alle riflessioni…

Lo guardò con occhi pieni di penetrante intelligenza.

“Come un fuoco dall’interno”, pensò Anselmo. Un fuoco che avrebbe illuminato il cammino di tutta la sua vita.

Quando si era sentito interrogare sul visitatore, gli era mancato il cuore per un istante. Aveva tentennato, incerto se dirgli la verità o tacere.

Un bocciolo cresce nell’oscurità, non sa nulla del sole, eppure preme contro quella stessa oscurità che lo imprigiona finché essa cede e il fiore sboccia aprendo i petali alla luce.

Come poteva impedire a quel bocciolo di trovare la luce? Un tempo aveva tatto una scelta ponderata sul suo destino, ora il destino del nipote era nelle sue mani.

Procedono i lavori, la vita va avanti, come un organo vivente la Fabbrica del Duomo sale al cielo, così come si evolvono le esistenze di coloro che gravitano intorno alla chiesa di Santa Maria Nascente

«Tu mio fratello?» replicò Pietro, «Non so se mi piacerebbe, alla fine sei solo uno scocciatore.» Lo disse ridendo e poi, senza lasciargli il tempo di replicare: «Adamo, mattone della Chiesa, rappresenta il contributo di ogni cristiano nella sua edificazione. Quei muri sono resi solidi da noi, i suoi figli che in nome della comune Fede in Cristo costruiamo sulla prima pietra d’angolo della Chiesa.»

“Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è diventata testata d’angolo”» sussurrò Alberto.

«Conosci anche gli Atti degli Apostoli» disse Pietro compiaciuto. «Non sei così ignorante come vuoi farmi credere» 

Gli diede una manata sulle spalle con tutta la forza e l’en- tusiasmo del bravo scultore che sarebbe diventato. Ripresero a camminare, scesi i gradini si trovarono di fronte al portico dell’Arengo. 

Si abbattono l’orgoglio e la superbia.

Si gettano le fondamenta per una nuova vita, fatta di progetti e speranze.

Come gusci vuoti gli absidi della cattedrale ospitano finalmente le opere d’arte più preziose che cantano la gloria degli uomini e della Madre del Cielo, dei mecenati di Milano, così si animano i grembi, cuori e spiriti si riempiono di vita, idee e sentimenti prendono forma. Sia dal punto di vista storico che da quello narrativo assistiamo all’ annodamento, ad un inciting moment perfetto e armonico. Il Duomo agisce come luogo privilegiato che accoglie ogni trasformazione e crescita dei personaggi, qui è il punto di svolta (turning point) del racconto, qui ogni azione puntuale o progressiva trova la sua conclusione e soluzione.

A un certo punto non si guardo più intorno, fissò lo sguardo sul cantiere che già si intravedeva poco più avanti interrompere l’orizzonte della via che sbucava nell apiazza. La visione di pietre, legni e marmi abbacinanti lo rincuorò come al pellegrino la vista dell’agognata mèta.

La sua casa era quel cantiere, non il monastero in cui era cresciuto, non la stanzetta che divideva con Alberto, bensì quell’opera in continuo movimento, quell’insieme di architettura, lavoro e devozione che, giorno dopo giorno, cresceva, si arricchiva di statue, muri, lastre di marmo in un intarsio incorruttibile posato sui mattoni che ne costituivano l’essenza.

Rosso l’interno, bianco l’esterno, simile a un corpo umano teso verso l’alto, dotata di cuore pulsante e di un involucro che avrebbe avuto il compito di proteggere l’anima della città e dei suoi milanesi.

Maria Nascente, la chiesa nascente. La casa di Dio, la domus del Domine.

Il Duomo.

Si fermò, battendo le palpebre, la mano sul cuore.

La giovane sposa del conte di Virtù, la protetta madonna che ispira Pietro e viene da lontano, da terre battute dal vento in cui lo sguardo si perde all’orizzonte. Donne che sia affidano alla madre in cielo, alla Madonna, mentre si crea la sua dimora generano vita a dispetto delle piaghe della guerra e della lotta per il potere. Costanza, Amina, Caterina sono artigiane della vita, tessono mirabilmente le loro storie fatte di devozione e sacrificio, intrecciano le loro esistenze interrogandosi  su quanto amare, come amare, fino a quando amare. Matilde e Margherita impareranno che l’amore è il pondus dell’esistenza, come diceva Agostino. Così ricorderebbe monsignore Anselmo, l’amore è quella forza di gravità che  dà senso alla vita, che significa l’intenzionalità e la direzione di ogni desiderio umano, nella volontà e nell’amore, perché ogni uomo agisce secondo questa unica legge.

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Uomini che sfidano il cielo e scongiurano la tracotanza o la vanità, nel rincorrere la massima espressione del Divino, fino a che la cattedrale sfiori le nuvole, come un inno sacro e una lode al talento umano 

A volte aveva la sensazione che quell’edificio divorasse le vite di tutti coloro che vi lavoravano. Giorno dopo giorno stagione dopo stagione, lassù a fissare lastre, a progettare, a modellare creta per poi scolpire statue nel marmo meno duttile.

Divorava vite, risorse, indifferente ai sacrifici connessi a ciascuna statua, decorazione, colonna o contrattorte. Su ogni elemento di architettura, dal più grande al più piccolo, erano impressi sudore, lavoro, sangue. Molti operai si ferivano, in modo lieve o più grave, qualcun altro aveva rischiato la vita e altri ce l’avevano rimessa, su quelle impalcature.

Uomini di chiesa che si misurano con i capricci e le sventure, per comprendere quanto possano incidere davvero sul corso degli eventi, quanto realmente siano in grado di                              operare all’interno del disegno divino della Provvidenza. 

Perché se Agostino è uomo della Grazia caro al nostro ruvido uomo di chiesa, spirito ruggente, Anselmo è un uomo che conosce la vita e professa la convinzione che ogni aspetto dell’agire e del pensare di un uomo sia un atto di volontà. Per Anselmo è una responsabilità. Come quella di un padre.


Un uomo deus ex machina un po’ strumento divino e un po’ burattinaio.

Un uomo che diventa Signore di Milano e vuole incidere nella storia il proprio nome.

Monsignore Anselmo, cuore saldo e umanità pensosa, del templare dalla virilità indomita, insieme con l’ambizioso Duca di Milano, si muovono paralleli nell’ intreccio di rivelazione proposto dall’autrice. In un progressivo processo di svelamento nei confronti dei personaggi, cioè in un aumento di conoscenza, passiamo dal non sapere a sapere – a svelare il segreto – a livello del macro racconto, della storia di Milano e della Lega Pontificia, i singoli episodi si riuniscono in un intreccio unificato estremamente elegante.

L’autrice raccoglie una sfida elettrizzante per chi scrive il genere storico -ambizioso ed esigente- animare un personaggio del passato realmente esistito, i cui profili si stagliano nitidi nella storia ma sono sfumati dalla leggenda. Dar vita a una figura realmente esistita, carismatica, affascinante e sfuggente, tra mito e storia. La scrupolosa ricerca le consente di mantenere l’aderenza al reale, alla verosimiglianza, senza togliere quella patina affascinante di mistero, quell’alone leggendario. Sfrutta il carisma di questi personaggi che giganteggiano nella storia e drammatizza le loro esistenze per riprodurre il riverbero affascinante delle loro imprese, per trasformare i fatti storici in emozioni, gli eventi in scelte e conseguenze di azioni appassionate. La realtà supera la fantasia, basta saperla raccontare. Prendono un posto privilegiato nella trama, sul proscenio, in una epoca che sta per riscoprire il concetto di homo faber Fortunae suae.

Non esistono tuttavia personaggi secondari se hanno una caratterizzazione attenta. Artisti sfidano se stessi a catturare quanto nella materia si possa liberare, fratelli che si ritrovano, tempo e spazio costituiscono non solo le due coordinate fondamentali del racconto: la Fabbrica del Duomo è come un ventre che accoglie una impalcatura solida con guglie leggere e ardite. Il narratore privo di volto, è la voce che si sente tra queste pareti, è quella dell’autrice. La narrazione mimetica con una prosa cadenzata e elegante mostra i fatti lasciando parlare i personaggi e descrivendo le loro azioni, quasi che il lettore possa goderli in presa diretta. La tensione narrativa, grazie alle ripetute complicazioni della trama, resta alta con un ritmo che si adatta ai tempi dell’epoca, che sono dilatati e verticali secondo lo spiritualismo nel tempo dell’attesa e della provvidenza ma preannunciano anche la nuova mentalità che rivendica con orgoglio l’umanità rinascimentale e il talento della laboriosità. 

Appassionato omaggio a Milano e alla sua storia, con una cura filologica e minuziosa anche dell’aspetto stilistico, in cui la sfumatura romantica è piacevolissima e gradevole, non manca di intrigo, sentimento, storia, leggenda. Un romanzo contraddistinto da molteplici approfondimenti dal punto di vista storico ma in cui amore, solidarietà, orgoglio e determinazione diventano motori continui della trama, rendendo Nel nome della pietra un’opera stratificata, dalla complessa comunicazione narrativa, perché l’immaginario potrà ricordare lo stile e l’impostazione di Ken Follett ne “La trilogia del Novecento” o di  Idelfonso Falcones de La cattedrale del mare e Il pittore di anime ma è altro.

La storia di storie, di un nome smarrito e di una scheggia di legno lavorata. Come una chiesa che è fatta di uomini, così un duomo – anche se “Domus del Domine” – è fatto di pietre e segreti.

Saffron