Può una donna rinunciare alla propria femminilità per un sogno di libertà. Elisabetta crede di sì, fino a quando non incontra lo sguardo del capitano Edoardo Venier….
1347, Venezia. Pur essendo una donna, Elisabetta ha un sogno: imparare l’arte medica da uno dei grandi maestri veneziani e continuare la professione del padre. Per guadagnare il denaro necessario è disposta a qualsiasi sacrificio, anche a imbarcarsi sulla galea Veniera, diretta a Candia, sotto le false spoglie del mozzo Daniel. Rinunciare alla propria femminilità, però, non è cosa facile, soprattutto quando i suoi occhi incontrano quelli di Edoardo Venier, capitano e proprietario della nave…
La luce del tramonto entrava dalla finestra aperta, tingendo di sfumature rosate tutto l’ambiente: non resistette e si affacciò, curiosa di ammirare dall’alto quella terra sconosciuta. Davanti ai suoi occhi si spalancò una visione ineguagliabile: una gigantesca laguna centrale, la Caldera, circondata su tre lati da ripide scogliere, separata dal mare aperto dalla più piccola isola di Thirasia. Le pareti della Caldera, che sovrastavano ai lati la rocca di Skaros, sembravano avvolgerla in un nero abbraccio. Al di sotto, una piccola baia circondata di roccia giallastra che scendeva verso il mare, corrosa dalla salsedine, formava numerose grotte, che si affacciavano su una spiaggia di lava nera, in contrasto con l’azzurro del mare che in quell’istante stava assumendo mirabili riflessi dorati. Era rimasta talmente affascinata dallo spettacolo offertole dalla natura selvaggia che non si era accorta di non essere sola. Le braccia di Edoardo attorno alla vita la fecero sussultare: fu un istante magico, infinito, come se tutto si fosse fermato intorno a loro. C’erano solo il loro respiro affannoso e il battito dei loro cuori
Ci sono momenti in cui cerchiamo l’evasione, in cui ci lasciamo intorpidire dal sole che scalda la pelle e infonde un certo languore prima di congedarsi al tramonto. Attimi in cui l’estate deve invaderci e farci sognare.
La nave rollava senza sosta, gli oggetti scivolavano sul pavimento della stiva scontrandosi fino a sbattere con violenza contro le pareti e la porta della cabina prese a vibrare paurosamente. Elisabetta, abbandonata alla dolcezza dell’acqua profumata, non fece caso ai passi che si avvicinavano. Avvertì la presenza di qualcuno dietro la porta ma, non vedendo entrare nessuno, vinse subito quell’attimo d’incertezza che il pudore le suggeriva, riprendendo a insaponarsi. Una scossa più forte delle altre finì per causare l’apertura della porta e dall’altra parte le apparve Edoardo, che la fissava immobile, come inchiodato al pavimento e privo di volontà, quasi sconvolto da una visione inspiegabile. Per la prima volta le parve fragile, smarrito, ed ebbe la straordinaria sensazione che tutta quella forza, quella virilità prepotente, fossero sotto il suo controllo. Ma fu solo per un attimo. Con furia improvvisa lui le fu dinanzi, prima che lei avesse il tempo di pensare a coprirsi. – Così, il più serio dei miei marinai, quello che godeva di tutta la mia fiducia, mi ricambia con un tradimento? – esclamò il giovane patronus.
Edoardo immerse il viso nei suoi folti capelli ramati e posò le labbra sul collo bianchissimo, per poi scendere a stuzzicarle i capezzoli fino a quando lei, piegando indietro il capo, non emise un lieve gemito di piacere. Con un estremo barlume di lucidità, si rese conto che avrebbe dovuto fermarlo, ma interrompere quei momenti di estasi era l’ultima cosa che desiderava. Sentiva la determinazione, il desiderio dell’uomo che andavano crescendo e che rendevano la sua volontà sempre più debole.
Un consiglio per l’autrice, di perdere ogni tanto un po’ di “compostezza” -so che detto da me suona strano, cerco sempre la disciplina nei prodotti creativi e incito sempre a sorvegliare il flusso compositivo- però qualche sbavatura ogni tanto darebbe solo fascino al racconto, qualche scena più intensa, qualche passaggio più mobile e sopra le righe…
Un tocco di originalità, magari rielaborando l’idea in una forma più lunga come quella del romanzo?
Un appunto gentile, per evitare una sorta di irrigidimento stilistico. Senza nulla togliere alla correttezza formale, alla precisione puntuale del lessico (riprodotto con una restituzione filologica oserei dire), al rigore della struttura narrativa.
Elegante, romantico.