Sesta tappa del Blog tour di NARCOS di Alessia Cucè

dal 6 dicembre on line

In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Alessia Cucé è partito un blogtour per presentarvi l’atmosfera di Narcos e farvi entrare nel mondo di King Snow, el Rey…

A noi di Harem’s book il compito di proporVi il primo capitolo in anteprima assoluta del romanzo

 

King

Il viaggio verso Caracas è lungo.

I raggi decisi attraversano l’oblò del mio jet, sbattendomi in viso. Mi rilasso sul sedile. Adagio la testa all’indietro, incrocio le braccia al petto e chiudo gli occhi nascosti dietro i Ray-Ban. Con me c’è Ben, mentre Robayo ci attende all’aeroporto con l’auto pronta a partire. Ho concordato un incontro con colui che si fa chiamare el jefe, il boss, perché vuole parlarmi. Un mio simile, un narcotrafficante con grande potere in Venezuela.

Il jet privato atterra in perfetto orario sul suolo venezuelano. Saliamo in auto e ci dirigiamo fuori città verso il luogo concordato. Quando arriviamo, osserviamo l’uomo ad attenderci. In lontananza, tre tizi. Uno di loro estrae un’arma e spara verso l’uomo che ha di fronte. Questo cade a terra e la pozza di sangue si espande sotto la sua testa, ricoprendo il suolo polveroso.

 Mi metto in allerta prima di aprire lo sportello e scendere.

«El jefe vuole parlare solo con lui» spiega l’uomo, indicandomi.

«Non se ne parla» rispondo risoluto. Mi paro davanti a lui. «Dì al tuo capo di portare il culo qui, perché non ho tempo da perdere.»

«Vamos» insiste lui, fregandosene delle mie direttive. Scambio con gli altri uno sguardo d’intesa e acconsento alla richiesta dell’uomo.

«Potrebbe essere un grosso affare. Se vuole solo te, vai» conviene Ben.

«Andiamo» confermo con una strana sensazione nelle viscere. Seguo l’uomo che mi porta dinnanzi a una baracca dove ad attenderci c’è un altro uomo che sorseggia una bevanda. I miei uomini si trovano dieci metri dietro di me e quella sensazione che continua ad attanagliarmi non lenta la presa.

“Non va bene. Non va affatto bene” penso nervosamente.

Il tipo seduto ha una brutta faccia che estrarrei la pistola e gli sparerei senza esitazione.

«El Rey» saluta con un falso sorriso, poi si alza e mi porge la mano per stringerla. Gliela nego. «Bienvenido» dice.

Osservo gli uomini alle sue spalle prendere il tizio che hanno fatto fuori e caricarlo in auto.

«Un informatore?» domando, mantenendo i sensi in allarme.

«Unarata, un ratto» chiarisce.

«Solo uomini fidati» accordo.

«Sempre» conferma. «Ma andiamo ai nostri affari.»

«Sono deluso. Pensavo di incontrare il tuo capo».

«Sono Hernando Gomez, braccio destro del jefe. Venga, le offro da bere.» Accetto il suo invito e mi siedo di fronte a lui. Mi versa del rum. Afferro il bicchiere. «Salud.»

«Salud» ricambio, mentre il caldo asfissiante si insinua sotto la camicia.

«Mi serve un uomo d’onore come lei.»

«Come me» sottolineo.

«La sua fama la precede, altrimenti non sarebbe seduto a questo tavolo.»

«Un uomo con le palle.»

«Ci siamo intesi.»

«Dovresti sapere, allora, che un uomo come me non tratta con intermediari.»

«Esattamente, ma il mio capo ha degli impegni improrogabili e si scusa.»

Mi spazientisco. «Arriviamo al dunque.»

«Si tolga gli occhiali, elRey. Gli occhi di un uomo mi fanno comprendere se sia sincero o mi prende per il culo.»

Non li tolgo. Contraggo la mascella e scatto dalla sedia, alzandomi.

«Sostieni che la mia fama mi precede, ma credo tu non abbia la benché minima idea di chi io sia.»

«Non è corretto, ma non mi fido in ogni caso.»

«Vaffanculo» sbotto e me ne vado.

«Rinuncia a tre milioni di dollari?» mi urla alle spalle.

«Me ne sbatto dei tuoi soldi.» E continuo a camminare.

«Se ne sbatte pure se le dicessi che el jefe vorrebbe proporle un accordo molto allettante?»

Mi blocco e mi volto incazzato. «Esatto. Io non contratto con gli intermediari, te lo ripeto.»

Esplode in una risata che mi fa ribollire il sangue nelle vene. Avanzo verso di lui con lunghe falcate e gli punto la pistola dritta in fronte. Lui resta seduto e, in un’apparente tranquillità, continua a sorseggiare dal suo bicchiere come se non stessi premendo la canna sulla sua carne.

«Chi cazzo sei?» domando furioso, credendo di essere caduto in un tranello.

«Un intermediario» ripete mandandomi in tilt.

«Non è la risposta che volevo.» Carico il colpo.

«L’intermediario del jefe» ribadisce, ma non si scompone.

«Voglio sapere di più.»

«Ogni cosa a suo tempo.»

La rabbia esplode e non mi trattengo più. «Senti, fottutissima testa di cazzo» gli urlo, afferrandolo per la camicia e strattonandolo. Il bicchiere gli cade dalle mani e mi pare, finalmente, di intravedere un barlume di preoccupazione. «Primo, puzzi e io odio la gente che puzza. Secondo, mi sono rotto le palle di tirarti fuori le parole da quella cazzo di bocca.» Faccio cenno a Ben e Robayo di raggiungermi e lui fa cenno ai suoi di stare tranquilli.

«Non mi piacciono i problemi» spiega.

«Neppure a me. Solitamente, i problemi, li elimino.»

«Se abbassasse la pistola, potrei spiegarle meglio» cede.

Controvoglia lo faccio. Gli lascio la camicia e stacco l’arma dalla sua fronte, socchiudendo gli occhi per impedire alla polvere rossastra trascinata dal vento, di intrufolarsi sotto gli occhiali.

«El jefe sta sistemando alcune faccende che necessitavano della sua presenza. Le ho già detto che si scusa.»

«Sai cosa me ne faccio delle sue scuse?»

«È stato molto impegnato nelle ultime settimane.»

«Io direi più che è un vigliacco.»

«Non le conviene metterselo contro.»

«Di che cazzo parla?» sbotta Robayo.

«È il tuo capo, non il mio» chiarisco.

«Lei sa molto poco di cosa succede qui e le persone poco informate al mio capo non piacciono.»

«King, andiamocene. Mi sono rotto di stare a sentire questo imbecille» propone Ben.

«No. Adesso sono curioso» freno la sua proposta. «Portami dal tuo capo che voglio scambiarci due chiacchiere» dico a Gomez.

«Se volete seguirmi» conclude. Faccio cenno a Robayo di prendere l’auto. Montiamo su e seguiamo l’intermediario.

«Tutto questo non mi piace» borbotta Ben. «Torniamocene in Messico.»

«Ho un brutto presentimento anche io» lo spalleggia Robayo.

«Non passerò di certo per quello che se la fa sotto. Voglio vedere in faccia eljefe e capire la sua proposta» spiego nervoso.

«Sei ricco da fare schifo, che te ne frega dei soldi?» domanda Ben.

«È una questione di potere, amico.»

Se rinunciassi a possibili accordi con uomini di potere, altri prenderebbero il mio posto. Se il mio mercato non si espandesse, crederebbero che sono un debole e proverebbero ad appropriarsi anche di ciò che già mi appartiene. Non posso rischiare e Ben sembra averlo capito, dato che smette di fare domande.

La macchina ci sta facendo strada e, dopo venti minuti circa, si ferma dinnanzi a un’enorme portone in ferro che si spalanca per farci entrare. Percorriamo un sentiero asfaltato fino a fermarci dinnanzi all’ingresso di una villa imponente e sfarzosa. Scendiamo dall’auto e seguiamo Gomez fino all’interno della casa. È dieci volte più maestosa di casa Juliana. Il lusso, varcata la porta a vetri, è eccessivo anche per me. Oro alle pareti, sulle tende, sui mobili, sui monili, sulle cornici dei quadri, intarsiato nelle porte e nei lampadari. C’è oro perfino nelle divise dei due maggiordomi che ci attendono.

«Accompagnate i nostri ospiti nelle loro stanze e garantitegli una serena permanenza» ordina Gomez agli stessi.

«Che altra novità è questa?» domando.

«Non le ho detto che el jefe l’avrebbe ricevuta subito» spiega e i miei nervi saltano un’altra volta.

«Sto per perdere seriamente la pazienza» intimo.

«Siete invitati alla cena di stasera, durante la quale avrete modo di fare la sua conoscenza. Ci sarà una festa di celebrazione e sarete suoi ospiti.»

Esplodo, non so se per la calma di Gomez che mi manda al manicomio o per i programmi a cui mi sta obbligando a partecipare senza aver minimamente preso in considerazione l’idea di parlarmene. So solo che le mie mani approdano sulla sua camicia e lo sbattono contro il muro. Abbastanza semplice vista la sua stazza esile in confronto alla mia.

«Si calmi, elRey» supplica.

«Ho perso la calma già da un po’, ma la riacquisterò non appena ti spaccherò la faccia.»

«Signori!» Ci richiama una voce alle mie spalle. Non lento la presa su Gomez e mi volto a guardare. Una donna sulla settantina, elegante e raffinata, avvolta in un casto tailleur grigio perla, con vistosi gioielli in corallo, impera in cima alle scale.

«Chi sei?» le urlo. Lei scende elegantemente, fulminandomi con lo sguardo senza la minima esitazione.

«Sono la padrona di casa, Camilla Salazar Varela» chiarisce con un tono di rimprovero. Lascio Gomez che cade e tossisce. «E certi comportamenti vandalici non sono ammessi tra le mie mura» rimprovera, adesso di fronte a me.

È alta tanto quanto me. Carnagione scura, occhi dello stesso azzurro del cielo sopra casa Juliana, ma talmente tristi da accorgermene io stesso, zigomi e naso delicati, i capelli argentei di una lucentezza che quasi mi infastidisce, raccolti in uno chignon e labbra appena coperte da un velo di rossetto. Seppur esile e con curve poco accentuate, dalla sua postura trasuda forza. È di una bellezza disarmante nonostante l’età che trapela dalle profonde rughe sul suo volto.

«Sono mortificata per le incomprensioni, ma vi chiedo di accettare il mio invito e dopo sarete liberi di ritornare ai vostri affari.» Il tono pacato e autoritario mi avvolge come la più dolce delle melodie. Mi confronto con gli altri e accettiamo, ma non capisco il reale motivo della mia resa. Sarà la curiosità, la brama di incontrare un uomo tanto potente ad avermi fatto cedere subito.

La donna si congeda affidandoci nelle mani dei suoi servitori che ci accompagnano nelle nostre stanze, al piano superiore della casa. Mentre salgo, la mano scivola sul corrimano della scala, anche questo d’oro e la curiosità di capire se sia realmente il metallo prezioso o solo una vernice, diviene forte e snervante.

«Troverete tutto ciò che vi occorre nelle vostre camere. Per qualsiasi cosa, c’è l’interfono al quale risponderemo personalmente» spiega uno dei due pinguini dorati che ci ha fatto strada. Ci consegna le chiavi dopo aver aperto le porte, invitandoci a entrare.

«Robayo, va a prendere i borsoni in auto» gli ordino e lui esegue. Rimaniamo soli e ci addentriamo nella prima camera.

«Cazzo» sbraita Ben, «è tutto troppo dorato. Sto per diventare cieco» borbotta infastidito. E lo sono anche io perché anche le nostre camere sono invase dall’oro. Uno sfarzo eccessivo, ostentato sicuramente per intimidire gli ospiti e mi sento stranamente a disagio. Apro la porta in cui suppongo ci sia il bagno.

«Mi sento un poveraccio» piagnucola ancora Ben.

«È quello che vogliono. È solo apparenza» lo ammonisco. «Non elemosinare. Non lo sei, non lo siamo» chiarisco, guardandomi intorno.

Robayo fa il suo ingresso con i bagagli e non fiata. Poggia sulla moquette il mio e quello di Ben e scompare nella sua camera. Anche Ben lo imita, ma una volta nel corridoio, ferma una cameriera.

«Dove troviamo un po’ di compagnia femminile?» le domanda cercando di fare il delicato, ma gli riesce proprio male.

«Mi… mi dispiace señor, qui non troverà quel genere di servizi» balbetta lei paonazza in viso e si dilegua.

Scoppio a ridere per l’espressione sul viso di Ben. È sbigottito.

«Puoi fare a meno di scopare per ventiquattro ore?» lo punzecchio, sperando di alleggerire la tensione che ancora mi attanaglia lo stomaco. Mi guarda sconcertato e si rinchiude in camera. Faccio lo stesso. Il caldo fuori è asfissiante e nonostante la temperatura fresca dentro la villa, avverto la necessità di rinfrescarmi. Avrei bisogno di una doccia, ma l’unica cosa che c’è nel bagno è una vasca déco al centro della stanza, troppo piccola per contenermi, visto il mio metro e novanta. Sbuffo, mi spoglio e cerco di accontentarmi. Giro le manovelle in oro, provando a non dare troppo peso a questo cazzo di colore che credo odierò per il resto della vita, attendo che la vasca si riempia e mi ci immergo. Buona parte dell’acqua casca fuori dai bordi, così come parte delle mie gambe. Ignoro la poca comodità e poggio la testa all’indietro, sul bordo freddo di ceramica. La sensazione che mi attanaglia continua ad avere la meglio. C’è qualcosa che non mi piace, il mio istinto mi suggerisce di alzare i tacchi e andare via, ma il mio orgoglio non me lo permette, tantomeno il mio nome.

Del Gado non avrebbe reagito così. Chissà se ha mai avuto esitazioni durante i suoi affari. A ogni modo, la voglia di capire e chiarire tutto è pressante.

Chiudo gli occhi per liberare la mente, ma un rumore mi disturba: qualcuno bussa alla porta. Non ho nessuna intenzione di aprire, così chiudo di nuovo gli occhi e penso a Natalia. Era stata la mia prima scelta quando avevo messo piede in casa Juliana, e continua a esserlo anche adesso e mi ritorna in mente la finta promessa fatta a Diego. Sono passati due anni dalla sua morte, ma ancora non comprendo l’importanza delle sue parole. Una donna sarebbe un intralcio. Un ostacolo. Una debolezza e io non sono un debole.

Natalia mi basta.

Natalia è l’unica in grado di capire ciò che più mi aggrada. Quando deve muoversi, quando parlare, quando dover stare zitta o quando sparire, ma soprattutto, quando muovere la bocca sul mio uccello per darmi piacere.

Sì, Natalia mi basta.

La immagino a farmi uno dei suoi servizietti con la bocca, mentre l’oro delle pareti si riflette sulla sua chioma rossa.

Bussano di nuovo e lei scompare dalle mie fantasie.

«Fanculo» sbotto. Esco dalla vasca, mi avvolgo l’asciugamano in vita e vado a vedere chi rompe. Apro e mi ritrovo la stessa cameriera irretita da Ben poco prima, con le guance ancora più rosse e gli occhi fissi sui miei pettorali.

«Donna Camilla mi ha ordinato di recapitarvi questo in camera» mormora in evidente impaccio, porgendomi un vassoio con del cibo e un bicchiere colmo di tè.  È piccolina, minuta, potrei spezzarla se solo volessi e ghigno immaginandomela sotto di me. Mi mancano gli sguardi imbarazzati di una donna che arrossisce davanti al mio petto, le mie puttane sono troppo abituate a vedere i miei muscoli. Lascio che i suoi occhi rimangano immobilizzati intanto che afferro il tramezzino e lo ingurgito voracemente, poi prendo la bevanda fresca e la bevo tutta d’un sorso. Lo faccio lì, davanti la porta, davanti la sua immobilità, mentre tiene il vassoio tra le mani.

«Tutto ottimo. Ringrazia donna Camilla da parte mia» le dico prima di abbassarmi alla sua altezza, intercettare il suo sguardo e salutarla con la mano. Basterebbe schioccare le dita e l’avrei nuda, pronta e in qualsiasi posizione io la voglia talmente è rapita da me. «Ti va di farmi compagnia?» le propongo sicurissimo della risposta.

«Señor King» mi blocca una voce autoritaria. Ritorno eretto, con il ghigno ancora in volto. La ragazza fugge via, ancora in evidente stato confusionale.

«Ha bisogno di qualcosa?» domando con aria compiaciuta alla padrona di casa.

«La pregherei di frenare i suoi istinti per il tempo in cui sarà mio ospite.»

«Nessun problema» le schiaccio l’occhio e mi rintano in camera, infastidito dalla sua richiesta. Mi immergo di nuovo nella vasca, sazio e dissetato, con un sorrisetto sulle labbra e una parvenza di serenità che pare aver sotterrato, momentaneamente, l’ansia. Ripenso a Natalia, immersa nella vasca con me, mentre si infila in bocca la mia erezione. La immagino leccarmi la punta, sfiorarmi i testicoli con le mani e l’acqua piena di sapone schizzare ovunque, mossa dai suoi affondi. Ho il cazzo tanto duro da afferrarmelo tra le mani e iniziare a masturbarmi, ma, ancora una volta, qualcuno bussa alla mia porta. Stavolta mi incazzo e vado ad aprire nudo, sperando che chiunque sia, vada via per l’imbarazzo e la smetta di rompermi le palle. Apro.

«Vestiti, cazzo» sbraita Ben e io rido.

«Come se non mi avessi mai visto nudo.»

«Ma non mentre sei solo. Quando sei con le donne è diverso. Mi fai quasi schifo.» Lo lascio entrare e me ne ritorno nella vasca, spero per l’ultima volta, per riprendere da dove avevo lasciato e lui mi segue. «Vuoi smetterla di farti una sega in mia presenza?»

«Allora vattene e non rompermi per il resto del pomeriggio.»

«Tira fuori le mani da lì sotto.» Mi afferra le braccia portandole fuori dall’acqua.

«Mi vuoi spiegare cosa vuoi?»

«Non mi piace questa vacanza forzata. Ho voglia di tornare a casa e non andare a nessuna festa e tutto questo sfarzo mi innervosisce.»

«Prova a rilassarti. Robayo?»

«Russa talmente forte che lo sento da camera mia.»

«Imitalo.»

«King, prova a darmi ascolto.»

«Devo capire con chi abbiamo a che fare, Ben. Cosa vuole da me e che tipo di accordo vuole propormi. Sai che non mi piace condividere con chi non conosco.»

«Non mi fido, King.»

«Neppure io, ma voglio chiarezza su tutta questa faccenda.»

Afferra uno spinello e lo accende. L’odore dolce e pungente invade l’intero bagno.

«Apri la finestra, Ben. Sai quanto odio quest’odore.»

«Un narcotrafficante che odia l’odore dell’erba. Giuro che non capirò mai questa cosa. Ti perdi il piacere.»

«Ti ho voluto vicino proprio per questo. Per me è un lavoro, il piacere è rappresentato dai soldi e dalle donne.»

«Un lavoro che fa sballare» borbotta, apre la finestra e si ci siede sotto.

«Stasera non voglio problemi, Ben» lo ammonisco. «Questo spinello sarà l’unico della giornata.»

«È un avvertimento?»

«Sì.»

«Okay» accorda.

Lascio che Ben continui a fumare e riprendo da dove avevo interrotto, inebriato anche io dal fumo che invade l’aria. Poggio la testa sul bordo della vasca, una mano fuori dall’acqua e l’altra dentro. Prendo a muoverla meccanicamente, ripetutamente fino a quando riesco finalmente a svuotarmi. Chiudo gli occhi, aiutato dal torpore e dallo stordimento dell’erba e mi addormento.

«Comincio a odiare questo posto» borbotto verso Ben. Sembra quasi che el jefe abbia voluto marchiare il suo territorio e in questo territorio, adesso, ci sono pure io. L’idea di essere marchiato mi fa ribollire il sangue nelle vene.

«C’è puzza di piscio ovunque» conferma volgare anche lui la sensazione di essere in un territorio marchiato. Le decine di invitati attorno a noi, vestiti di tutto punto, sfoggiano eleganza. Le donne nei loro abiti colorati e scintillanti. Ho indossato un paio di jeans e una camicia scura lasciata aperta sul collo per lasciare in mostra il simbolo d’oro bianco che mi regalò Del Gado prima di morire, il simbolo del nostro olimpo: una corona. Lo tocco, lo rigiro tra le mani per cercare tranquillità perché mi sento fuori posto e comincio a credere sia voluto.

«Andiamocene» mormora Robayo.

«Sono d’accordo» appoggia Ben.

«Rilassatevi» dico io, ripetendomelo mentalmente.

«Lo sta facendo apposta» continua Ben.

«Ti interessa essere in tiro? Temi che le donne non cadano ai tuoi piedi e dover lasciare così il tuo uccello insoddisfatto?» lo prendo in giro.

«No.» Mi blocca con un braccio e mi fissa in viso. «Temo vogliano sminuire il tuo potere.»

La sua idea è sensata e la morsa allo stomaco si fa più fitta.

«Testa alta e dimostriamo a questi damerini chi siamo» propongo.

«Comincio a pisciare in giro anche io» ride Robayo.

Si allontanano per recuperare due calici di champagne. Mi guardo intorno, prendo un bicchiere anche io e sorseggio. Osservo l’orchestra che suona dal vivo al centro dell’immenso salone. Lascio che le note della musica entrino dentro e distendano i nervi. Devo essere a mio agio e farlo credere a chiunque poggerà i propri occhi su di me.

Intorno all’orchestra, file di tavoli disposte in cerchio, ricoperti da tovaglie dorate, con al centro vasi monocromatici contenenti rose rosse, l’unico tocco di colore diverso da tutto il resto. Ho la nausea e una gran voglia di sputare su tutto questo sfoggio. Oltre le file di tavoli, un’ampia zona dedicata al ballo. Osservo tutto con attenzione, fino a quando vedo donna Camilla. Se avesse avuto trent’anni di meno sarebbe stata il mio tormento. I capelli raccolti in un rigoroso chignon laterale. Il trucco raffinato, gioielli poco vistosi e un abito lungo, nero, dritto. Nessun pizzo, niente fronzoli o eccessi che l’avrebbero accomunata alla massa. È sola, seria e sta bevendo così decido di avanzare risoluto verso di lei.

«Donna Camilla» la saluto. «Non vorrei essere inopportuno, ma vorrei invitarla a ballare e scusarmi dell’inconveniente di oggi pomeriggio, davanti camera mia» preciso.

«Sono stata giovane anche io, elRey, ma mai tanto sfacciata.»

«Non succederà di nuovo» la rassicuro, mentendo e abbozzando un sorriso tanto falso quanto rassicurante.

«Me lo auguro» replica con fare minaccioso, prima di protendere la mano e accettare il mio invito. Se vuole che mi abbassi al suo volere, glielo farò credere. Le afferro la vita con fermezza, ma lei non sussulta e la cosa non mi piace.

«La tristezza nei suoi occhi a cosa è dovuta?» le domando curioso iniziando a ballare, sperando di insinuarmi in un cuore che sembra di ghiaccio, un cuore tanto ferito da non temere nulla.

«È così poco informato sulla mia famiglia» afferma saccente.

È la seconda volta oggi che mi viene detto di essere poco informato. È la seconda volta che mettono in dubbio la mia persona.

«Ho accettato il suo invito, sono stato cortese. Adesso però esigo di capire di cosa sta parlando» dico gelido.

«La morte di mio marito, el jefe» professa. Mi blocco. Smetto di ballare e cerco di assimilare la sua rivelazione. La tristezza nei suoi occhi è pari al dolore del suo cuore e per un attimo penso alla moglie di Del Gado se solo fosse stata viva nel momento della sua morte. L’avevo immaginata tante volte, ma mai in nessuna donna avevo trovato le bellezze decantate da Diego. Adesso, per la prima volta, guardando donna Camilla in viso, capisco a cosa alludesse mio padre.

«Non sono cafone a tal punto da mettere gli affari prima della famiglia. Avrebbe potuto avvisarmi e mi sarei levato di torno.»

«Lui è morto da una settimana» dichiara. Riprendiamo a danzare e inizia a raccontare. «Era vecchio e stanco, come me» confessa seria.

«Non ero al corrente dell’accaduto e me ne scuso.»

«Abbiamo evitato che la notizia trapelasse, con difficoltà, naturalmente.»

«Perché tanta fretta di ricevermi?» le domando perplesso.

«Non c’era motivo di rinviare e quale migliore occasione della celebrazione della successione di stasera, per le presentazioni ufficiali?»

«Mi sento lusingato. Alla mia cerimonia ho voluto solo la famiglia. Niente affari.»

«Quello che lei è diventato, elRey, è un affare» sottolinea pretenziosa. Terminiamo e ci sediamo al tavolo. Ben e Robayo mi raggiungono. Osservo le dieci sedie intorno a noi, tutte piene tranne una.

«L’erede si fa attendere» sussurra donna Camilla, invadendo i miei pensieri. Abbozzo un sorrisetto, cerco di rilassare i nervi e iniziamo a cenare. Continuo a portare, di tanto in tanto, lo sguardo su quella sedia e inizio a credere che se è così cafone da mancare alla sua cerimonia, non credo mi convenga entrare in affari con lui. Non mi piace chi non rispetta gli impegni, ancor di più quando c’è di mezzo il buon nome della famiglia e la curiosità prende il sopravvento. Non ho idea di chi possa aver scelto Varela come suo successore.

«È stata una bella serata» confido a fine cena, rivolgendomi alla padrona di casa con l’intenzione di concludere qui questa farsa. «Non credo però che l’erede di suo marito faccia al caso mio. Non si è ancora presentato e questo basta a farmi dubitare del rispetto nei miei confronti e, soprattutto, nei suoi.»

«Non ha tutti i torti, ma per quanto la famiglia sia importante, ci sono affari che non possono essere rimandati. Le ho già spiegato che il tentativo di non far correre troppo in fretta la voce della morte di mio marito, non ha dato i frutti che speravamo» professa. Resto spiazzato. «Detto ciò, è liberissimo di tornare a casa sua, anche se mi piacerebbe restasse fino alla fine.»

«Non ho bisogno del suo consenso per andarmene» sottolineo sfacciato. «Ma non ho nessun problema a rimanere» accordo ancora più curioso.

«Quali sono i suoi progetti di espansione, elRey?» domanda lei senza dare peso alle mie precisazioni. La guardo perplesso. «Ho vissuto quarant’anni accanto al jefe. Mi creda, molte decisioni hanno dovuto avere anche la mia approvazione.»

Scrollo la testa, infastidito dal sapere il ruolo di una donna in un mondo che non è fatto per le donne. «Senza offesa, ma non parlo di affari con le donne» calco. La sua risata composta mi accoltella nell’orgoglio. «Cosa la diverte, esattamente?» le domando infastidito.

«Nulla» taglia corto lei. «Mi illumini, di cosa parlerebbe con una donna?» domanda poi con arroganza.

«Potrei essere volgare» chiarisco.

Afferra il tovagliolo e si asciuga delicatamente le labbra, dopo aver sorseggiato del vino. «Dovrà rivedere le sue idee in fatto di donne.»

«Non accetto ordini da voi» ribadisco, fregandomene della sua precisazione.

«Voleva essere solo un consiglio» termina, con un sorrisetto sulle labbra e la malizia negli occhi. Mi guardo con Ben e Robayo e osservo sui loro visi la mia stessa perplessità. Troppe cose non quadrano. L’invito in un momento così intimo, i consigli di donna Camilla e riporto l’attenzione sulla sedia vuota, curioso all’inverosimile di capire perché cazzo sono seduto a questo tavolo. E sono già sicuro che la risposta non mi piacerà.

NARCOS-dal 6 dicembre