Titolo: Isola di Neve

Autore: Valentina D’Urbano

Editore: Longanesi

Data di uscita: 13 Settembre 2018
TRAMA
Un’isola che sa proteggere. Ma anche ferire.
Un amore indimenticabile sepolto dal tempo.2004. A ventotto anni, Manuel si sente già al capolinea: un errore imperdonabile ha distrutto la sua vita e ricominciare sembra impossibile.
L’unico suo rifugio è Novembre, l’isola dove abitavano i suoi nonni. Sperduta nel mar Tirreno insieme alla sua gemella, Santa Brigida – l’isoletta del vecchio carcere abbandonato –, Novembre sembra il posto perfetto per stare da solo. Ma i suoi piani vengono sconvolti da Edith, una giovane tedesca stravagante, giunta sull’ isola per risolvere un mistero vecchio di cinquant’anni: la storia di Andreas von Berger – violinista dal talento straordinario e ultimo detenuto del carcere di Santa Brigida – e della donna che, secondo Edith, ha nascosto il suo inestimabile violino. L’unico indizio che Edith e Manuel hanno è il nome di quella donna: Tempesta.1952. A soli diciassette anni, Neve sa già cosa le riserva il futuro: una vita aspra e miserabile sull’isola di Novembre. Figlia di un padre violento e nullafacente, Neve è l’unica in grado di provvedere alla sua famiglia. Tutto cambia quando, un giorno, nel carcere di Santa Brigida viene trasferito uno straniero. La sua cella si affaccia su una piccola spiaggia bianca e isolata su cui è proibito attraccare. È proprio lì che sbarca Neve, spinta da una curiosità divorante. Andreas è il contrario di come lo ha immaginato. È bellissimo, colto e gentile come nessun uomo dell’isola sarà mai, e conosce il mondo al di là del mare, quel mondo dove Neve non è mai stata. Separati dalle sbarre della cella, i due iniziano a conoscersi, ma fanno un patto: Neve non gli dirà mai il suo vero nome. Sarà lui a sceglierne uno per lei.Sullo sfondo suggestivo e feroce di un’isola tanto bella quanto selvaggia, una storia indimenticabile. Con la travolgente forza espressiva che da sempre le è propria, Valentina D’Urbano intreccia passato e presente in un romanzo che esalta il valore e la potenza emotiva dei ricordi, e invita a scoprire che, per essere davvero se stessi, occorre vivere il dolore e l’amore come due facce di una stessa medaglia.
RECENSIONE

C’è la storia di una ragazza coraggiosa e ferita, la storia di una vita amarissima che però non riesce a piegarla. Per quanto ci abbia provato, la vita non l’ha mai piegata.

C’è la voce di un uomo che parla attraverso di lei, che racconta cose che lei stessa non conosce. La musica, la vita della terraferma com’era un tempo.

C’è qualcosa dentro. Qualcosa rimasto nel buio per cinquant’anni…

Care Dame,

avete presente quei concerti sinfonici, magari ascoltati mentre si sta seduti sulle poltrone rosse di un auditorium, con l’aria che odora di legno e musica? Avete mai sentito dentro al petto e giù, nella pancia, la musica prendervi in una stretta e trascinarvi in scenari magnifici e infiniti?

No, non sto sognando, non sto neppure divagando. Oggi vi parlo de L’isola di Neve di Valentina D’Urbano, edito da Longanesi, un romanzo che non è solo un romanzo, ma un quartetto d’archi, una composizione musicale, la chiave di Sol su un pentagramma ingiallito.

Unite la musica alle onde del mare. Unite i colori della voce di un violino a quelli azzurri e turchesi delle acque sopra gli scogli e poi alzate lo sguardo verso l’orizzonte. La vedete? È l’isola, Novembre, la gemella di Santa Brigida che emerge dai flutti scuri in lontananza, presente, tangibile. Ecco, questo è il fulcro di tutto. Da qui si dipana la storia, la musica, l’odore della salsedine portato dal maestrale, la vita, come tentacoli giganti che arrivano, toccano, si insinuano e scuotono, unendo il passato al futuro e facendo del presente l’anello di congiunzione.

Chi è Edith? Chi è Manuel? Chi è Neve e chi è Andreas? Che ruolo svolgono in questa storia? Chi sarà il futuro di chi, e chi il passato?

Novembre, che forte e aspra affonda le sue radici nei fondali marini in un punto imprecisato del Mediterraneo, diviene la roccia immobile nel fluire morbido della vita, come un fiume le cui acque vengono divise e gorgheggiano attorno alle rocce di quella pietra inamovibile che attraversa il tempo rimanendo immutata. Così Novembre se ne sta lì, ferma a occhieggiare Santa Brigida, così brulla, così scarna, così dolcemente violenta, come Neve. Lei che è solo una bambina di diciassette anni. Lei che vede il mondo con gli occhi di chi non ha studiato, non ha conosciuto, non ha mai scoperto. Lei che è giovane ma è pure vecchia, con le mani dissanguate dalla pesca, dalle reti, da un lavoro ingiusto e da una vita crudele. Lei che malgrado tutto, sa vedere e sa ascoltare e che diventa chiesa, tabernacolo, custode di qualcosa di così prezioso e unico da essere quasi evanescente. E poi c’è il presente che prende a calci un passato di cui non conosce il nome, che ingiuria e punisce ma che vive nelle sembianze di Manuel che della sua vita ne ha fatto un fiore da appassire tra i rovi, una nenia stonata.

Passato e presente che si chiamano a vicenda per svelare verità nascoste, sacrifici violenti, amori feroci, passioni intense, vita vera desiderata con tutte le forze, rivendicata tra due lingue di terra che si affacciano su un braccio di mare che pare essere la linea di demarcazione tra l’essere e il voler essere, tra la libertà e la prigionia.

E poi c’è il carcere, quello che sorge potente e minaccioso su Santa Brigida. Un carcere antico le cui pietre, gli intonaci, le finestre parlano lingue lontane che si riverberano nel tempo, come un’onda docile che attraversa le epoche, le memorie, i giorni, gli attimi. Urla di un tempo vissuto, scandisce le vite, racconta storie negli antri segreti, negli spazi allagati, nel dolore di un ultimo bacio. E vede, e ascolta le parole di due amanti, due anime perse nei risvolti di un amore impossibile e indimenticabile. Una prigione fisica, gemella alla prigione psicologica che è Novembre. Una prigione, che nello spazio e nel buio di una cella, diventa terra di nessuno, un luogo isolato dove poter essere liberi, paradossalmente.

Care mie dame, qui non si parla solo di un amore puro e unico. Questa è una storia che parla di mali sociali, di debolezze, di una società impigrita, della povera gente imprigionata in un sistema antico. Urla rivalsa, e il bisogno di essere ascoltati, capiti, amati. E poi sussurra quel sentimento più puro che esiste, l’abbandono cieco tra le braccia di chi si pensa essere sovrumano, la rinuncia, il dolore più profondo. E ti accarezza con parole cariche di quel sentimento pieno e vigoroso che impregna ogni cosa, pensieri, pelle, abiti. Ti sussurra la dolcezza infinita di un abbraccio improvviso, il dolore fisico e lacerante di uno schiaffo ingiustificato, e quasi senti le braccia stanche, le gambe piegate, le giunture affaticate, ma anche la gioia infinita, la passione, l’unione. E se volete scendere nelle viscere di questi sentimenti, nel dolore più atroce supportato dall’amore più grande e invincibile a tutto, nella sensazione quasi claustrofobica di non avere vie di fuga, di non avere scelte se quella di seguire l’istinto, allora leggetelo, allora sporcatevi. Scendete anche voi nelle profondità di un carcere abbandonato, fatevi entrare dentro le note di un brano musicale, la voce di un violino di notte. Guardate anche voi la luce lontana che si vede al buio, lì, in mezzo al mare scuro sotto le stelle. Ballate a piedi scalzi su pavimenti lucidi, lasciatevi trasportare e sollevare dalle parole più belle che io abbia mai letto, perché questo romanzo è un canto d’amore, una nenia dolce e amara che culla e pugnala, consola e abbandona, lascia e stritola.

Perché “se ami davvero qualcosa, la ami a tal punto da farti del male.”

La perfezione non esiste, è vero. Nemmeno questo romanzo lo è, ma nelle sue imperfezioni, nella sua ruvidezza, diventa perfetto. Perfetto per me che l’ho letto lasciandoci un pezzo di me, che mi ha travolta come il mare con la spiaggia. Mi ha scossa, risucchiata e poi buttata lì, su uno scoglio a Santa Brigida, nuda, senza difese a cercare in alto la finestra, la luce, quella luce che ha rischiarato tutto. La libertà.

Mi ha svuotata. Mi ha scavata dentro. Mi ha lasciata in mare aperto.

Non sono avvezza a lasciarmi andare così durante una lettura, né a sentirmi addosso le stesse emozioni dei personaggi. Vivo la lettura in modo a volte distaccato, forse per una certa forma di protezione. Ma qui il mio cuore è precipitato portandosi appresso le lacrime, le emozioni, il corpo, la mente, tutto. E rimarrò lì per giorni su quella spiaggia, lo so. Ci rimarrò per giorni ad ascoltare quei bisbigli d’amore, le parole taglienti, quella forza interiore che mi ha fatto quasi tremare, tra gusci di conchiglie e rocce sbeccate. Tra gli scogli. Tra le pietre antiche. Tra passato e presente.

Valentina D’Urbano con questa opera si riconferma non solo una tra le mie autrici preferite in assoluto, ma anche una scrittrice talentuosa, capace di sfondare le porte del perbenismo, di scuotere le menti e abbattere le ideologie comuni. Con una prosa magnifica, una capacità narrativa come pochi, la sua scrittura ti arriva dentro e scardina, taglia, si insinua, corrode. È feroce, è dolce, è un canto, un calcio. Mi ha incantata, mi ha stravolta. Mi ha fatto innamorare.

Dietro, in una nicchia buia della sua testa, in un posto che non veniva mai alla luce, c’era lui. Adesso ne sentiva la vicinanza, ne vedeva gli effetti negli occhi degli altri, che non si erano fermati per fastidio o per curiosità. Si erano fermati perché non si poteva fare altro che stare immobili ad ascoltare. Perché quella musica ammorbidiva le cose, le faceva apparire più vere eppure meno brutte, meno squallide, e persino la macchia scura d’acqua che faceva marcire l’intonaco sulla parete sembrava ritirarsi sconfitta.”

Indimenticabile

Alla prossima storia

Laura

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